“Crescendo a Londra io e i miei amici eravamo abituati a sentire i nostri genitori parlare dei bei vecchi tempi. E noi ci chiedevamo che cosa ci fosse di bello in quei tempi”. La riflessione che apre il documentario My Generation la fa Michael Caine, attore simbolo dell’Inghilterra e dell’intero movimento della rivoluzione culturale degli anni Sessanta denominato Swinging London. “La mia generazione – racconta sempre Caine – è stata la prima che ha visto la classe operaia protagonista. Fino a quel momento nel Regno Unito vigeva una netta separazione di classe che, per esempio, non avrebbe mai permesso a un attore con il mio accento cockney di poter avere un ruolo da protagonista”.
E, grazie al cielo, il regista di Zulu, che segna il debutto di Michael Caine, inglese non era e così ogni pregiudizio cadde di fronte al talento di uno dei migliori rappresentanti del cinema britannico. “Il mio vero nome è Maurice Joseph Micklewhite, decisamente poco cinematografico – continua l’attore - Così decisi prima di chiamarmi Michael White, poi quando scoprii che esisteva già un attore con lo stesso nome decisi di cambiarlo. Dovevo fare in fretta perché il mio agente premeva al telefono. Ero in Trafalgar Square e mi girai verso i cartelloni di una sala cinematografica dove proiettavano Gli ammutinati del Caine e decisi di prendere quel cognome. Se avessi guardato dalla parte opposta probabilmente mi sarei chiamato Michael La carica dei 101”. Ma è la voce di Caine, oltre la sua innegabile ironia, a guidarci dentro i rivoluzionari anni Sessanta. Anni che Caine visse da protagonista insieme a tanti altri personaggi di quegli anni: i Beatles, i Rolling Stones, la modella Twiggy, la cantante Marianne Faithfull, oltre altre icone creative come Mary Quant, David Baily, Brian Duffy. Londra era il centro del mondo. La moda, la musica e l’arte nasceva lì e in quel periodo era difficile vedere in giro “gente che avesse più di trent’anni”. La Swinging London era un’esplosione di inventiva con un lato nero nascosto e che ne decretò la fine rapida come la sua deflagrazione.
My generation è un bel documentario piacevole e ritmato, anche se non particolarmente sorprendente. Certo, rivedere alcuni dei protagonisti di quegli anni meravigliosi e unici fa sempre piacere, ma – a parte qualche divertente aneddoto sull’esordio dei Rolling Stones o su come Nureyev non sapesse ballare il twist – grandi novità non vengono rivelate e alla fine tutto appare solamente come il sunto di quel saggio ampio che avrebbe potuto essere.